da “Il Dubbio” – sito internet
Il 2 Giugno 1992 l’ultima estate della Prima Repubblica non era ancora iniziata. Il panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, era all’ancora nel porto di Civitavecchia, in attesa di imbarcare ospiti importanti per una minicrociera verso l’isola del Giglio. Ci sarebbero stati manicaretti per pranzo, gamberetti e costolette d’agnello preparati da chef d’eccezione. Ci sarebbe stato un po’ di spettacolo, con i parà inglesi che si lanciavano dagli aerei decollati da un incrociatore. Ci sarebbe stata musica d’epoca, rigorosamente anni ‘ 30. Ci sarebbero stati soprattutto discorsi destinati a cambiare la storia d’Italia. Su quel panfilo, in quella giornata di sole e mare, fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia.
Vendere, o svendere, quel patrimonio, secondo i dettati della teoria economica imperante avrebbe raggiunto tre risultati: ridurre il debito pubblico che ammontava allora a 795 mld di euro, rendere più efficienti e competitivi i settori in via di privatizzazione, aumentare l’occupazione. In quell’inverno del 1992, mentre tangentopoli colpiva durissimo e si attendeva un referendum che tutti sapevano avrebbe siglato il Game Over per la prima Repubblica, nei corridoi di Montecitorio non si sentiva parlare che di “privatizzazioni” e “cartolarizzazioni”. Era la panacea, il sospirato miracolo, la bacchetta magica.
Si partì nel luglio 1993, con la vendita, o svendita, della prima tranche del gruppo SME, controllato dall’Iri. L’onore di aprire la strada toccò ai surgelati e ai dolci: Motta, Alemagna, Surgela più varie e molte eventuali. Se li aggiudicò la svizzera Nestlè.
Il breve governo Berlusconi, nel 1994, implicò una frenata che si prolungò fino al 1996: poi, con i governi Prodi e D’Alema, le dismissioni presero la ricorsa. Il gruppo IRI fu smembrato e messo in vendita: il ricavo immediato fu di 30 mld di vecchie lire, lievitati poi sino a 56mila e passa. Una cordata capitanata dagli Agnelli si aggiudicò Telecom. Ciampi, allora ministro del Tesoro, spiegò che serviva a impedire che Fiat vendesse all’americana General Motors. D’Alema, arrivato al governo alla fine del 1998 patrocinò il cedimento di Autostrade a Benetton, introducendo una delle principali specificità delle privatizzazioni all’italiana: la vendita allo stesso soggetto sia del servizio che delle infrastrutture, le autostrade e i caselli, Telecom e i cavi sui quali viaggia il segnale.
La dismissione è proseguita per una ventina d’anni, passando per le banche, quote di Enel ed Eni, il disastro di Alitalia. L’incasso è stato cospicuo: 127 mld di euro, una decina ricavata solo dalla vendita di immobili. Sarebbe un record se non ci fosse l’inarrivabile Regno Unito thatcheriano e post- thatcheriano che è andato persino oltre. Il bilancio però è fallimentare, almeno se si tiene conto degli sbandierati obiettivi iniziali. Il debito pubblico non è stato risanato: si è triplicato. Il rilancio dell’occupazione ha proceduto all’indietro, con un milione di posti di lavoro circa persi. Il miraggio di creare “colossi italiani” è rimasto un miraggio beffardo.
Il principale vantaggio promesso ai consumatori, l’abbassamento dei prezzi conseguente alla competività delle aziende private sul mercato, è stato rapidamente affondato dalla tendenza delle aziende stesse ad accordarsi ricreando di fatto condizioni di monopolio, solo a condizioni più esose. E’ vero che spesso gli utili delle aziende privatizzate sono cresciuti e spesso di parecchio. Però, come segnalava nel 2010 la Corte dei Conti, in una valutazione complessiva del ventennio delle privatizzazioni, non per il miglioramento dei servizi e la loro conseguente maggior appetibilità: solo per l’aumento delle tariffe.